Quale futuro per gli Opg? – Parte seconda

 

O.P.G. di Aversa. Un momento durante l'attività dell'Area Verde. Questa attività offre agli internati l'opportunità di lavorare con gli animali, le piante e i fiori.
O.P.G. di Aversa. Un momento durante l’attività dell’Area Verde. Questa attività offre agli internati l’opportunità di lavorare con gli animali, le piante e i fiori.
O.P.G. di Aversa. L' O.P.G. visto dall'area verde. La struttura è stata creata nel 1876 ed è la più antica in Italia nel suo genere.
O.P.G. di Aversa. L’ O.P.G. visto dall’area verde. La struttura è stata creata nel 1876 ed è la più antica in Italia nel suo genere.
O.P.G di Aversa. Un internato durante l'ora d'aria.
O.P.G di Aversa. Un internato durante l’ora d’aria.
O.P.G. di Aversa. Due internati giocano a carte.
O.P.G. di Aversa. Due internati giocano a carte.
O.P.G. di Aversa. Molti internati hanno già scontato la pena ma le famiglie non li vogliono accogliere in casa e restano senza nessuna alternativa.
O.P.G. di Aversa. Molti internati hanno già scontato la pena ma le famiglie non li vogliono accogliere in casa e restano senza nessuna alternativa.
O.P.G. di Aversa. Molti internati hanno già scontato la pena ma le famiglie non li vogliono accogliere in casa e restano senza nessuna alternativa.
O.P.G. di Aversa. Molti internati hanno già scontato la pena ma le famiglie non li vogliono accogliere in casa e restano senza nessuna alternativa.

Accompagnati da V., poliziotto penitenziario di illuminata professionalità, camminiamo tra gli edifici che formano l’Opg. Sono le undici del mattino ed è orario di passeggio per i pazienti. Ci avviciniamo a un cortile, antistante ai reparti 9 e 9 bis. Un anziano ci chiama. Ha una folta barba bianca, il suo viso risuona come un vecchio pianoforte scordato. “Ciao! Non vi conosco. Chi siete?”, fa eco la sua voce. “Siamo reporter, siamo venuti per raccontare di come si vive qua dentro”. “Allora scrivete questo”, prosegue l’uomo, “ho 72 anni e sto qui da 16. Non posso uscire perché non saprei dove andare e con la mia pensione minima non posso pagarmi neppure un affitto. Sapete cosa mi manca di più? Vorrei tanto costruire un violino. Sono un liutaio! Ma qui non mi fanno prendere in mano neanche uno scalpellino. Un violino vorrei costruire! Vi aspetto a pranzo un giorno. E scrivete anche che il mangiare qui fa schifo!”.

Una domanda ci ritorna con insistenza: la malattia mentale può essere giustificazione per l’abbandono del malato? Decidiamo di rivolgere queste domande al direttore della struttura aversana, Adolfo Ferraro.

Direttore dal 1997, il dottor Ferraro ha cercato di trasformare l’istituto ponendo l’accento sulla riabilitazione del disagio psichico e tentando, attraverso l’introduzione di attività socio-riabilitative, di portare gli internati a una maggiore consapevolezza del sé.

Quali fattori rendono oggi obsoleti e superati gli Opg?

Non sono luogo di cura, almeno così come attualmente sono strutturati, non rispondendo al senso sanitario del termine “ospedale”.

Non sono interessati dalle attuali leggi che riguardano la malattia mentale, pur ricoverando soggetti affetti da tale patologia.

Hanno ancora un legame troppo forte con l’aspetto custodialistico che è prevalso sino alla fine del secolo scorso e che propone regolamenti carcerari a soggetti con esigenze e reazioni diverse da quelli del circuito penitenziario ordinario.

Sono vecchi strutturalmente e spesso fatiscenti, in quanto non si sono mai ristrutturati negli ultimi trenta anni, ritenendo – da parte di tutti – che sarebbero scomparsi in breve tempo.

Un Opg, così come è strutturato e finanziato, può essere rieducativo?

Gli aspetti strutturali e finanziari che hanno caratterizzato la struttura nel suo aspetto istituzionale non spingono alla rieducazione ma al controllo; la variazione della struttura , anche in relazione agli spostamenti di forze e risorse, sta producendo dinamiche riabilitative precedentemente impensabili.

Quali sono stati i suoi sforzi da quando è direttore per cercare di migliorare la sorte di chi entra in Opg?

La necessità di un recupero e di una riabilitazione psichiatrica passa attraverso una rivisitazione del luogo e della sua trasformazione, in una continua ricerca dell’identità che parte dal considerare i soggetti internati “malati” e non “criminali”; da qui nasce l’identità di tutta la struttura, influenzando il suo decorso.

L’Opg di Aversa ha un solo educatore a disposizione. Non è un po’ poco?

Sono stati investiti sia gli uffici regionali che centrali dell’Amministrazione Penitenziaria ; al momento, oltre all’educatore presente, se ne è aggiunto un altro in missione per tre giorni la settimana e tra breve dovrebbero esserne assegnati altri due stabilmente.

Quali sono le principali proposte per il superamento dell’attuale situazione di stallo?

È necessario agire su due aspetti: il primo è quello di garantire l’aspetto curativo e riabilitativo di questi luoghi, per fare stare meglio chi vi è internato; il secondo è quello di strutturare reti di collegamento con la psichiatria territoriale così che possano essere dimessi e accolti dal territorio soggetti che, successivamente alle cure, possano ritenersi non più socialmente pericolosi (condizione che – quando è presente – è alla base dell’internamento).

Voi direttori di Opg siete concordi nel ritenere che questo tipo si struttura sia ormai superata. Quali risposte avete ricevuto dalla politica in questi ultimi anni?

La politica è anche un modo per non scontentare nessuno, e non potendo essere tutti accontentati verranno infine accontentati tutti, tranne i più deboli della catena. Che nel caso specifico sono gli internati (che, ad esempio, non votano e spesso hanno perso diritti sociali). Tutte le Direzioni degli Opg in Italia concordano nel considerare da superare il ruolo e l’attuale significato dell’Opg, e le forze politiche che si sono interessate all’argomento si sono divise in due grandi filoni: o hanno sostenuto con molta convinzione la necessità di intervento, senza realizzare nulla; o hanno cavalcato emotività temporanee per proporre la riappropriazione degli spazi dell’Opg (ad Aversa e a Montelupo Fiorentino, per esempio) senza alcun interesse per una variazione giuridica e di interventi.

Quanto costa allo stato un Opg e quanto costa un carcere con la medesima popolazione?

Un Opg complessivamente ha un costo ridotto rispetto a quello di un carcere di eguali dimensioni e popolazione. Del resto, anche se avessero lo stesso costo sarebbe limitativo rispetto alle esigenze di persone affette da malattia mentale che, a causa della loro patologia, presentano un costo sociale certamente più elevato.

Quanto costerebbe allo stato creare comunità protette o case famiglie per coloro che fuoriescono dall’Opg e non hanno un’alternativa?

Il costo di un paziente in una struttura esterna del territorio (case famiglia, comunità terapeutiche, SIR etc.) varia dai 100 ai 170 euro giornalieri. Il costo sociale di un internato in Opg è di circa 55 euro al giorno, tutto compreso.

Come potrebbero funzionare cooperative di lavoro che reinseriscano gli ex internati nel mondo del lavoro?

Funzionano già nelle strutture di Montelupo F. e di Barcellona P.G.. Ad Aversa i tentativi intrapresi finora si sono bloccati a causa delle difficoltà prodotte dal dovere intervenire con strutture cooperativistiche in un territorio sociale caratterizzato da infiltrazioni camorristiche.

Come vengono gestiti all’estero e in particolare nei paesi nordici, generalmente più attenti di noi alla tutela dei diritti sociali, i casi psichiatrici giudiziari?

Vengono generalmente ricoverati – per un periodo di tempo relativo alla patologia – in strutture sanitarie, con interventi sanitari all’interno e custodialistici all’esterno delle strutture.

Come si dovrebbe comportare uno stato civile e moderno di fronte a casi psichiatrici pericolosi per la collettività?

L’aspetto preventivo sul territorio è fondamentale, e questo può nascere solo dalla ricerca e dalle esperienze che nascono studiando e analizzando i casi successivamente alla commissione del reato, per l’appunto in Opg. Esistono, ma in misura assai ridotta del previsto, una serie di soggetti che sono realmente pericolosi, e su questi si potrebbe agire con un internamento che prenda in considerazione la possibilità che la cura permetta di individuare la riabilitazione.

Un’attività cui lei ha dato vita prende il nome di ponte Caritas.

Una possibilità in più per il superamento dello stigma. Il progetto è finalizzato a favorire il processo di recupero e di inserimento socio-lavorativo degli internati non più pericolosi. Stiamo sperimentando percorsi graduali di riavvicinamento alle responsabilità dell’ambiente libero, attraverso un centro di accoglienza diurno per internati in permesso premio. Attualmente sono in sei che ne beneficiano.

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