Altaquota: storia del birrificio artigianale più alto d’Italia-2a puntata.

Da qui sgorga l'acqua utilizzata nella produzione di birra Altaquota.

Pubblichiamo oggi la 2a puntata dell’articolo con cui l’amico Giorgio ci porta nel dietro le quinte del birrificio artigianale Altaquota, il più alto d’Italia.

Una birra per scommessa-2a puntata di Giorgio Guglielmino.

[…] Una stradina bianca si dipana alle spalle del birrificio. La percorriamo e dopo pochi passi siamo alla fonte d’acqua che Altaquota utilizza per la sua birra. Poco più sotto c’è un abbeveratoio per le bestie. Con lo sguardo ora abbracciamo il Gran Sasso e i Monti della Laga. “La birra è stata da sempre una grande passione, per me e per mio fratello Andrea”, prosegue Claudio, “ma non mi interessava realizzare semplicemente un sogno famigliare o dare una possibilità di lavoro ai nostri rifugiati: mi premeva valorizzare questo territorio. L’acqua che impieghiamo per la produzione sgorga qui, da una fonte in alta quota. E’ purissima. Il farro che uniamo al frumento, al luppolo e ai malti, lo produciamo in questa valle nella frazione di Vezzano. Sono riuscito a coinvolgere alcuni agricoltori a riprendere la coltivazione del farro. Per molto tempo era stata abbandonata, dato che non era considerata redditizia. Ora però, nei campi, vicino al granoturco, alle lenticchie e alle patate, c’è il farro che utilizziamo per la nostra produzione: lo raccogliamo, lo maciniamo ed è pronto all’uso”.

Il maestro birraio Andrea ritratto al lavoro.

Claudio ci indica i terreni che scendono più a valle, dove i contadini della zona hanno piantato il rocoto, una qualità di peperoncino originaria del Perù e della Bolivia che Altaquota utilizza nella preparazione di un nuovo tipo di birra ad alta fermentazione.

“Mio fratello segue la produzione e sperimenta nuove miscele, è lui il mastro birraio. Io mi occupo della distribuzione e dell’organizzazione. Facciamo formazione-lavoro presso il birrificio sia per i giovani del posto che per i rifugiati in accoglienza. Il sabato e la domenica siamo qui, con tutta la famiglia: maciniamo i malti, facciamo la cotta, imbottigliamo quattro tipi di birra, mettiamo le etichette. Insomma, seguiamo tutto il processo. E con noi ora lavorano, dopo un periodo di apprendistato, due ragazzi afghani e una ragazza del paese.”

Azar.

L’integrazione dei rifugiati che vivono nella valle del Velino sembra aver avuto successo, ma è stato necessario un lavoro certosino di preparazione, in rete con il Comune. Non era semplice, si trattava di fare i conti con la chiusura di una comunità che per quarant’anni non ha conosciuto né investimenti né cambiamenti, salvo assistere all’emigrazione dei suoi giovani verso la città. Con il suo paziente lavoro, la cooperativa Il Gabbiano e il birrificio Altaquota stanno promuovendo l’accettazione dei rifugiati da parte delle famiglie locali che ora percepiscono questi ragazzi come parte del tessuto sociale e lavorativo.

L'ingresso dello stabilimento di Alta Quota.Intanto, Andrea, il mastro birraio, sta controllando il grado zuccherino della cotta, il momento più delicato della produzione. “I due ragazzi afghani hanno portato notorietà alla birra, forse anche un po’ troppa per la tranquillità di queste zone. In molti volevano conoscere questo strano birrificio di montagna in cui lavorano due rifugiati. E’ salita anche la troupe di una emittente nazionale francese, ma quella volta mi sono proprio spazientito. Volevano costruire un finto set cinematografico con tanto di tappeti di preghiera stesi qui e là nel birrificio. Un’altra volta invece è arrivata una televisione giapponese. Stentavano a credere che in Italia si potesse vivere e lavorare ancora così, raccogliendo direttamente le materie prime, utilizzando la fonte dietro casa e scaldandosi con la legna nel caminetto”. [continua]

Visita il sito di Altaquota

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